Revenge Porn — l’ennesima forma di violenza sulle donne

A quanto pare non possiamo proprio fare a meno di cercare — e purtroppo trovare — forme sempre nuove per esercitare coercizione e violenza sul prossimo. Il revenge porn è soltanto una delle miriadi di sfaccettature della violenza sulle donne. Ne parlo con Francesca, una mia amica che da tempo sta tentando di sensibilizzare — specialmente sul suo account Instagram — i suoi follower sull’argomento. Quello che segue è il risultato, messo da me sotto forma di intervista, di conversazioni avute su Instagram, via mail e per telefono. Francesca si occupa di musicoterapia preventiva, riabilitativa e terapeutica e questo è il link che porta al suo sito.
Lei è Francesca

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(Stefano): Ciao Fra. Io e te ci conosciamo da tempo. Ultimamente, nelle tue storie su Instagram, ho notato un tuo crescente coinvolgimento nel tema dello stalking online, del revenge porn e di tutte queste forme di violenza (direi sempre su donne) che i social media hanno purtroppo reso possibili. Prima delle domande più mirate, mi dici da dove nasce questo tuo interesse/coinvolgimento?

(Francesca): Ciao Stefano, posso aprire con una precisazione? Quello che vediamo nei social, o in generale nel digitale, come puoi immaginare è solo la trasposizione di quello che normalmente accade anche nel mondo analogico. Credo sia importante far capire che, se esistono determinati fenomeni, come ad esempio il cyberstalking o il cyberbullismo, non è per colpa dei social, delle chat, di internet più in generale (come spesso ho letto in questo periodo), ma è colpa di una mentalità talmente prospera che non ha difficoltà ad attecchire su qualsiasi terreno.

Il coinvolgimento, mi chiedevi. Forse già sai che è stato proprio durante uno dei tuoi corsi di scrittura creativa che ho realizzato che parlare di quello che era accaduto a me poteva essere un modo per accorciare la distanza tra vittime di violenza e “il resto del mondo”. Spesso non riusciamo a mettere a fuoco un problema perché non ne siamo toccati in prima persona — noi o qualcuno a cui vogliamo bene — ma questo non lo dissolve, né ci rende meno coinvolti. Quindi il mio interesse è dato non solo dall’essere stata una vittima di violenza, ma anche dal credere che tutti noi abbiamo una responsabilità nella rieducazione di questa mentalità.

(Stefano): In quale modo la scrittura ti ha aiutata a, per usare le tue parole, “accorciare la distanza”? Pensi che la scrittura possa essere un mezzo altrettanto valido di altri per affrontare con se stessi eventuali esperienze traumatiche?

(Francesca): Nel mio caso è stato un esperimento. Sentivo la necessità di parlarne e avevo il pretesto del racconto: potevo mettere in scena quello che realmente era successo, mascherandomi dietro la protagonista del romanzo e alcuni personaggi inventati. Questo mi ha aiutato a mantenere un distacco emotivo e ad avere un punto di vista (quasi) da osservatore esterno. Sia chiaro: avevo già iniziato una terapia e il mio bisogno di condividere era un tentativo di alzare la mano e dire “è successo anche a me, non siamo sole” (qualche anno dopo sarebbe nato il movimento #MeToo). Dico tentativo perché il romanzo è ancora lì, ma la distanza l’ho accorciata parlandone anni dopo sui social.

La scrittura è un aiuto, spesso i terapeuti consigliano di scrivere dei propri traumi e io stessa ne ho potuto apprezzare i risultati, ma come tanti mezzi perde il valore terapeutico se non c’è un esperto a seguire il processo di guarigione. Come per la musica, no? Tu ne sei un amante e mi puoi confermare i benefici che apporta l’ascolto anche in momenti più difficili, ma non basta questo per definire l’effetto “curativo” e il processo “musicoterapia”.

Chissà se te lo ricordi, quel racconto che avevo scritto, diventato poi un capitolo del romanzo a cui lavoravamo insieme.

(Stefano): Me lo ricordo molto bene.

Esempio visivo classico di revenge porn(Francesca): Raccontando quello che mi era successo nei primi anni 2000, avevo fatto riferimento a un episodio: una persona con la quale avevo deciso di chiudere i rapporti perché divenuta troppo insistente aveva iniziato a mostrare in giro una mia foto dicendo che ero la sua ragazza. Ecco, si stava “vendicando” mostrandomi come “trofeo”. Revenge, vendetta, cosa ti viene in mente?

Io sono nata l’anno dopo la sua abrogazione, ma il delitto d’onore è qualcosa di estremamente vicino nell’arco temporale della nostra cultura. Per i più giovani che magari non sanno di cosa stiamo parlando, il delitto d’onore consentiva uno sconto della pena a chiunque uccidesse, ad esempio la moglie o il marito fedifraghi, o l’amante, o una figlia o sorella scoperte in un’illegittima relazione carnale. “Il mio onore è stato tradito, ho diritto di vendicarmi. Vengo punito, sì, ma anche un po’ compreso per quello che ho fatto”.

(Stefano): Il “delitto d’onore” è una macchia molto grave nella nostra storia legislativa. Era tanto prassi che Giovanni Arpino scrisse un romanzo, Un delitto d’onore, appunto, in cui l’uomo che ha commesso il delitto verrà alla fine assolto — non solo, l’avvocato gli dice che presto, grazie alla pubblicità data al suo caso, diventerà addirittura sindaco. È un romanzo per certi versi agghiacciante, portato avanti con maestria da Arpino che riesce — miracolosamente — a mantenersi freddo e distaccato, dando così ulteriore forza al testo.

Sembra incredibile, ma il romanzo di Arpino è ancora attuale, soprattutto alla luce di ciò che mi dici sul revenge porn — e, ovviamente, alla luce dei femminicidi che non accennano a diminuire.

Ti spiace continuare sul revenge porn?

(Francesca): Dicevamo, nel revenge porn, inteso in senso stretto, quello che accade è che un uomo “si vendichi” di essere stato lasciato/tradito da una donna rendendo pubbliche o condividendo in chat di gruppo foto personali della stessa inviategli durante la relazione — quindi in un momento di fiducia condivisa. Ora, anche tu sarai stato lasciato qualche volta, immagino.

(Stefano): Certo che sì. Ben più di una volta, ahimé.

Prego notare: 2601 membri

(Francesca): A me è capitato, ma mai ho vissuto la cosa come un torto personale, tanto da dover meditare vendetta. Dispiacere, disperazione anche, sì, ma non da vivere l’accaduto come un’offesa. Cos’è che accentua questo desiderio di vendetta? L’idea del possesso, della donna come oggetto. Il mio violentatore che, prima di abusare di me, mostrava una foto di me definendomi “cosa sua”.

Nel revenge porn di cui stiamo parlando e sentendo parlare ormai da qualche mese, invece, vengono inclusi anche altri tipi di rapporti tra le proprietarie delle foto e chi le condivide. In alcuni gruppi scoperti su Telegram, per esempio, sono state trovate foto che i ragazzi facevano di nascosto alle proprie ragazze (o che loro stesse avevano inviato), ma, tieniti forte, anche foto di figlie (minorenni) esibite orgogliosamente dai padri (scrivo esibite, leggi “lanciate alla mercé di decine di migliaia di uomini che non frequentano certo questi gruppi per disquisire di estetica o di arte”).

Se ne parla oggi non perché sia un fenomeno legato al momento: gruppi e atteggiamenti del genere esistono da anni.

Secondo te è giusto continuare a parlare di quanto accaduto come di “revenge” porn? Perché io penso che per iniziare a cambiare mentalità si debba anche imparare a usare una terminologia che non abbia la tendenza a giustificare (“è una vendetta”).

(Stefano): No, bisognerebbe cambiare la terminologia. È come quando si dice L’ha uccisa in preda a un raptus, oppure Ennesimo dramma della gelosia.  Quante volte abbiamo visto titoli simili sui giornali?

“Senza motivo”? Come? Si implica che possa esistere “un motivo” per fare una cosa simile?

(Stefano): Senti, mi chiedevo… È possibile fare i nomi di questi gruppi? Sono io l’autore del post, mi assumo io ogni responsabilità nel pubblicarli. Tanto di denunce per diffamazione ne ho già un paio…

La feccia umana del revenge porn che tracima in violenza pura
La merda non muore mai

(Francesca): C’è chi preferisce fare i nomi per permettere di segnalare i gruppi e chi invece, come me, teme che citandoli si accenda solo una curiosità morbosa. Intanto sembra che alcuni autori dei post siano stati denunciati e quei gruppi chiusi, ma c’è poco da rasserenarsi: ne stanno già spuntando altri.

(Stefano): Quindi non sbaglio quando dico che la stragrande maggioranza di queste “pratiche” (in cerca di un termine migliore) è ai danni di ragazze e donne? O, peggio ancora (se possibile), che lo è esclusivamente?

(Francesca): Se io e te ci siamo conosciuti, Stefano, è perché siamo entrambi legati al mondo delle parole. Allora tiro in ballo due parole: la prima è femminicidio. Abbiamo un termine (in Italia dagli anni Novanta) per riconoscere una serie di reati ai danni delle donne (“qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”, Devoto Oli 2009), reati presenti anche prima, certo, ma una singola parola dedicata aiuta a riconoscere che esiste un problema (chiamalo “la matrice patriarcale”, chiamalo “mascolinità tossica”, chiamalo “maschio dominante”) le cui conseguenze possono essere causa di femminicidio.

La seconda parola è femminismo — che in tanti ancora oggi pensano che sia un movimento nato per affermare la superiorità della donna rispetto all’uomo, quando in realtà si è semplicemente sentito il bisogno di unirsi contro una discriminazione di genere.

Non “uccisa da un raptus”. Basta giustificazioni.

Poiché il mondo virtuale non è qualcosa di astratto, ma reale tanto quanto il mondo analogico, è scontato che anche qui si creino gli stessi identici meccanismi e, nonostante la premessa, ci tengo a sottolineare che questi meccanismi vengono messi in atto non solo ai danni delle donne, ma anche di tutte quelle categorie che vengono solitamente prese di mira e bullizzate (se non è revenge porn è body shaming, fat shaming e così via).

(Stefano): È importante uscire dalla mentalità del “branco”. Vorrei farti un’altra domanda, molto di attualità visto il momento che stiamo vivendo, ovvero la convivenza forzata delle coppie a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19. Nei casi di violenze domestiche, le donne si sono trovate costrette a convivere forzatamente con il loro tormentatore. Una tortura nella tortura. Di quanto sono aumentate le denunce? E come affrontare una situazione del genere? Non parlo dal punto di vista pratico, ma da quello emotivo. Anzi, riformulo: è possibile affrontare una simile situazione nel contesto del confinamento sociale?

(Francesca): Da un articolo pubblicato sul sito di D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), sappiamo che nel primo mese di lockdown l’incremento delle richieste di supporto, rispetto allo stesso periodo del 2018 (ultimo rilevamento), è stato del 74,5% (2867 donne, di cui il 28% non aveva mai contattato i centri di antiviolenza D.i.Re; 2956 nel secondo mese, di cui il 33% per la prima volta).

Quello che segue è un estratto da questo articolo pubblicato su Repubblica il 14 maggio 2020. Vi consiglio di leggere l’articolo per intero.
Sei chiamate ogni 24 ore. In Emilia-Romagna dall’inizio del lockdown il centralino del 1522, numero antiviolenza di genere e stalking, è stato letteralmente preso d’assalto. In 48 giorni, dal primo marzo al 16 aprile, il telefono ha squillato ben 282 volte, il 78% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. E se è vero che in tante si sono limitate a chiedere informazioni sul servizio o supporto psicologico, è altrettanto vero che in quasi metà dei casi (125, +95%) il numero verde è stato composto proprio per chiedere aiuto o segnalare violenze ed emergenze.

[…]

Quel che è certo è che “la situazione sta precipitando: con la quarantena le vittime fanno più fatica a chiedere aiuto. Riceviamo molte più chiamate d’emergenza da parte di donne che hanno bisogno di informazioni in fretta perché sono già al limite.”la Repubblica, 14 maggio 2020

(Francesca): Il Ministero delle Pari Opportunità ha istituito un numero antiviolenza e stalking (1522, attivo 24 ore su 24) e una chat sul sito https://www.1522.eu per parlare con un’operatrice, ma in caso d’emergenza ci si deve rivolgere alle forze dell’ordine e, in caso di percosse e atti violenti, andare al pronto soccorso e farsi rilasciare un referto.

È chiaro che il confinamento non avrà agevolato il sostegno emotivo, se ci riferiamo al sostegno emotivo di una rete sociale; l’importante è fare una corretta informazione perché si sappia che in caso di necessità i servizi di assistenza specifica sono sempre attivi.

(Stefano): Io sono un uomo. Purtroppo, ho lo stesso genere di quelle persone lì. Ma, ovviamente, come me ci sono tanti uomini che inorridiscono di fronte a tali comportamenti e situazioni. Ecco, cosa può fare un uomo?

(Francesca): Tu dici “purtroppo”, io dico “per fortuna”. Per fortuna tra gli uomini c’è anche chi si scandalizza.

Cosa significa inorridire? Significa leggere una notizia a riguardo e assumere un’espressione sprezzante di giudizio su chi commette questi atti?

“Meglio che restare indifferenti”, risponde qualcuno.

Eppure l’effetto causato da un sentimento di orrore senza presa di posizione e un atteggiamento di indifferenza è assolutamente identico. Identico anche a chi, invece, ne ride.

Volete iniziare a fare qualcosa? Usate questa immagine come cover di Facebook.

La risposta a “cosa può fare un uomo?” la stai dando tu, in questo esatto momento, scegliendo di parlare apertamente dell’esistenza del problema. E ti dirò di più: il fatto che tu mi abbia chiesto di affrontare insieme l’argomento qui, sul tuo sito, mi ha fatto riflettere su una cosa.

(Stefano): Quale?

(Francesca): Sono stata, come tante donne, alquanto arrabbiata per il fatto che la maggior parte degli uomini che ogni giorno vede quanto spazio dedichiamo a questi temi sia rimasta completamente indifferente. Quando mi hai chiesto “cosa posso fare, nello specifico, io?” e hai proposto questa conversazione, ho capito quanto sia importante che ognuno ne parli con i mezzi e le risorse che ha a disposizione.

Glossario
Body shaming: deridere qualcuno per il suo aspetto fisico, nello specifico —

Fat shaming: quando si prende in giro per l’eccessivo peso corporeo

Revenge porn: condivisione di immagini o video senza il consenso dei proprietari o protagonisti degli stessi

Telegram: applicazione di messaggistica, tipo WhatsApp, ma con possibilità di partecipare a gruppi o conversazioni private in modalità anonima (con nickname e non con numero di telefono)

Quando una donna dice “no”: No.

Quando una donna dice “sì” ma è in stato di ebbrezza o di coscienza alterata: No.

(Stefano): Okay. Da quello che leggo, sul tuo profilo e su quello di altre persone — che ho conosciuto tramite te — è molto importante parlarne. Ma non solo, è anche molto importante come se ne parla. Cosa possiamo fare per parlarne, e per parlarne nel modo giusto?

(Francesca): Se mi chiedessero di esprimere la mia posizione attraverso un dipinto ne uscirebbe uno sgorbio incomprensibile, io non so disegnare, il mio sforzo sarebbe vano. Ho sospeso il mio atteggiamento di giudizio su chi non ne ha ancora parlato, confido che stia solo cercando il modo migliore per dirlo e, non lo so, forse il modo migliore per fare qualcosa non è neanche parlare da uno a molti, come può avvenire nelle storie di Instagram o su Twitter, benché pensi che le persone con un seguito numeroso, i cosiddetti “influencer”, abbiano la possibilità, parlandone, di rendere l’argomento un tema non più straordinario. Il modo migliore, dicevo, è che chiunque venga in contatto con atteggiamenti del genere (condivisione di foto in chat di gruppo, discorsi da spogliatoio sull’oggettificazione della donna eccetera) assuma una posizione di critica costruttiva, dichiarando di distaccarsi da questa mentalità.

Ho sentito alcune testimonianze di ragazzi che si sono fatti portavoce di questi messaggi di solidarietà in pubblico. Eppure alcuni hanno ammesso di essersi accorti solo dopo che, in gruppo tra maschi, è capitato loro di non intervenire quando i compagni tiravano fuori stigmi e stereotipi. Perché è difficile, certo. Perché si ha paura di essere additati di fragilità emotiva nel provare empatia con le donne su questi argomenti. Capisci, dunque, che questo tipo di modo di pensare non si ripercuote solo sulle donne, ma anche sugli uomini che credono semplicemente che tutto ciò sia ingiusto e hanno voglia di dirlo.

Ditelo, c’è bisogno anche di voi.

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La mia conversazione con Francesca si conclude qui. Abbiamo lavorato molto a questo articolo, e speriamo di aver contribuito. Se anche un solo lettore prenderà iniziative per condannare pubblicamente il revenge porn e ogni forma di violenza sulle donne, avremo avuto successo.

Se non volete usare l’immagine dell’articolo, vi lascio qui di seguito un’altra “cover” per Facebook contenente l’ultima frase — bellissima e efficace — con cui Francesca ha voluto chiudere la nostra collaborazione. (Cliccate con il tasto destro e poi scegliete “Salva immagine con nome”. Le dimensioni sono già quelle giuste.)

Cover per Facebook contro il revenge porn
Un’altra “cover” per Facebook. Se volete usarla, scaricatela liberamente.

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2 Comments

  1. Valerio Achille Semenzin said:

    Spesso alcuni uomini, mi fanno vergognare di essere uomo.
    Articolo davvero bellissimo!!!

    17 Maggio 2020
    Reply
    • Caro Valerio, come ti capisco.
      Per questo è il caso, davvero, di non rimanere MAI in silenzio quando ci capita di essere testimoni di atteggiamenti simili.

      18 Maggio 2020
      Reply

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