Confesso che non vedevo l’ora di leggere Nod. Non solo la trama mi attirava non poco, ma era addirittura finito nella shortlist degli Arthur C. Clarke Awards — quindi, immaginavo, eccellenza in uno dei miei generi preferiti, la fantascienza, e per di più etichettato con il mio sottogenere preferito, fantascienza distopica.
Come se non bastasse, proprio quando mi ero deciso a comprarlo Amazon l’ha messo in offerta nei monthly deals, e me lo sono pagato tipo un euro e novantanove.
Wow. Niente male, come premessa.
Purtroppo, alla fine devo dire che l’unico motivo di gaudio, per il sottoscritto, è proprio quello di averlo acquistato — per puro culo — a prezzo iper-scontato e non a prezzo pieno.
Leggo recensioni entusiastiche un po’ ovunque — da Goodreads a Amazon.com — e mi sento un po’ una mosca bianca, un pesce fuor d’acqua nell’ammettere che Nod… be’, Nod mi ha annoiato a morte.
È scritto molto bene. Questo devo concederlo, a Adrian Barnes. Solo questo, però. Nod è davvero noioso.
La trama
A un certo punto, un bel mattino, sulla Terra la gente smette di dormire. Così, di punto in bianco, il 99,9% della popolazione non dorme più. I pochissimi che hanno dormito hanno tutti condiviso lo stesso sogno, immagini mistiche di una sorta di alba dorata (di cui non troveremo mai alcuna spiegazione in tutto il romanzo). Anche alcuni bambini — assolutamente silenziosi, nel senso che non spiccicano parola, e sono serafici e piacevolmente inquietanti — dormono, ma ciò che sognano rimane un mistero (mai svelato).
Il problema è che — la scienza lo conferma — gli esseri umani non possono stare senza dormire per più di qualche notte di seguito. Alla sesta o settima notte si instaura la psicosi (irreversibile) e, al massimo entro venti, venticinque giorni (nei casi più “fortunati”) sopraggiunge la morte.
Ecco quindi che l’umanità rimane divisa in due gruppi: gli insonni — quasi tutti — e gli Sleepers, con i primi che, ben consapevoli del destino che li attende, cominciano a dare la caccia ai secondi.
Dopo pochi giorni, l’umanità come la conosciamo non esiste più. La società scompare, imbarbarendosi. E arriva il mondo di Nod. (Da notare, per chi non lo sapesse, che to nod, in inglese, significa sia annuire che — e, se ci pensate, il movimento del capo è lo stesso — appisolarsi.)
Il protagonista, Paul, è un etimologo — e uno Sleeper. Scrive libri sul significato delle parole, ed è proprio da un suo libro che l’antagonista, Charles, reso folle dall’insonnia e da un delirio di onnipotenza, prende i termini e la mitologia di una nuova religione che costruisce intorno a sé.
Ora, mi piacerebbe tanto mettere uno spoiler alert proprio qui, invitandovi a non cliccare se non volete scoprire come va a finire… ma il fatto è che non c’è proprio niente da scoprire.
Punto.
Niente.
Nada.
L’autore non fornisce alcuna spiegazione sul perché alcuni dormono e altri no, sulla natura degli strani sogni degli Sleepers, né su nient’altro. Non c’è nemmeno una conclusione vera e propria, visto che — boh, a un certo punto il romanzo finisce.
Le occasioni perse di Nod
Sono tante, tantissime.
Barnes, pur avendo sottomano una storia potenzialmente esplosiva, la disinnesca in un raro esempio di autolesionismo, e lo fa ripetutamente.
Il romanzo è davvero costellato di occasioni perse.
Quando la fidanzata di Paul muore — suvvia, credetemi, non è uno spoiler, non vi sto rovinando niente — la mancanza di pathos è tanto evidente da farmi pensare che sia voluta. E, considerate le qualità di Barnes, probabilmente lo è. Il problema è: perché? Perché rinunciare a un momento tanto importante relegandolo a una paginetta che passa e va senza lasciare di sé alcuna traccia emotiva?
Inoltre, manca del tutto una qualsiasi analisi sulla società in dissoluzione: Barnes si limita a raccontarci qualche aneddoto qua, qualche aneddoto là. Gli Insonni (o Risvegliati, come si auto-definiscono) spuntano a gruppi quasi casuali, entrano in conflitto tra loro, ma al lettore non viene mai fornita una spiegazione per ciò che fanno (okay, non dormono da un sacco di tempo, ma non è che si può giustificare tutto con questa premessa, altrimenti il romanzo può anche finire a pagina uno).
L’elenco potrebbe continuare all’infinito, ma di sicuro la mancanza più eclatante è quella della spiegazione dei sogni degli Sleepers. Perché sognano quelle cose? E cosa rappresentano? E i bambini, che sognano cose leggermente diverse, perché le sognano? Qual è la differenza tra loro e gli Sleepers adulti?
Non c’è risposta. La si attende invano, ma non arriva.
Ho letto recensioni in cui Nod veniva paragonato a The Stand di Stephen King. Mi sono venuti i brividi: non è che, siccome entrambi i romanzi sono apocalittici, debbano stare di diritto sullo stesso scaffale. Chi ha scritto una cosa del genere dovrebbe smettere di prendere le sostanze che sta prendendo e cambiare cura — immediatamente.
Nod sta a The Stand come la Polisportiva Cagnazzo di Sotto (BG) sta all’Inter di Mourinho. Tutt’al più, se proprio si vuole fare un paragone — comunque assurdo — con Stephen King, il romanzo che più viene alla mente è Cell — guarda caso uno dei libri peggiori in assoluto mai scritti dal Maestro dell’Horror — che comunque ha una capacità di agganciare il lettore infinitamente superiore al romanzo di Barnes.
Nel recensirlo per Amazon, ho messo due stelle su cinque. Con una trama del genere — soprattutto se letta in quarta di copertina — uno si aspetterebbe un romanzo di quelli che ti tengono incollati dalla prima posizione del Kindle all’ultima, e invece mi sono ritrovato a leggerlo con fastidio, lentamente, e soltanto perché prima di rendermi conto che no, non sarebbe davvero successo niente di niente ormai ero arrivato al 55% e — lo sapete anche voi — la speranza è l’ultima a morire.
Avrei anche messo una stella su cinque (il minimo possibile) ma, dalla sua, Nod ha la scrittura. Almeno quella.
Lo stile di Nod
Ecco, se c’è un lato assolutamente positivo da trovare in Nod è lo stile di scrittura. Narrato tutto in prima persona dal punto di vista di Paul, letterariamente è molto ricercato: la professione di Paul emerge in ogni pagina, e a volte l’uso etimologico (appunto) delle parole e delle frasi da parte di Adrian Barnes è piacevolissimo, divertente e assolutamente intelligente.
Bastasse questo, per fare un bel romanzo…
Comunque, questa ricercatezza nello stile è valsa a Nod la seconda stella del mio giudizio su Amazon.
Vi propongo un paio di passaggi che — seppur per motivi differenti — ho trovato interessanti.
In questo brano è praticamente impossibile non notare una sorta di autocelebrazione. O, almeno, così l’ho vista io. Non c’è alcun luogo, narrativamente parlando, che lo possa giustificare — almeno non con questi toni.
Nel brano che segue, invece, possiamo apprezzare tutta l’abilità stilistica di Barnes e la ricercatezza dei suoi riferimenti dickensiani — sia Uriah Heep, da David Copperfield, che Mr. Pecksniff, da Life and Adventures of Martin Chuzzlewit, sono diventati, tra l’altro, nell’accezione comune, indicativi di persone profondamente ipocrite, elemento che nel romanzo ha un senso — che vengono qui usati perfettamente in contesto, dimostrando una qualità di scrittura non comune. (Putroppo rimane l’ostentazione, francamente superflua, dello scrivere Uriahed, Heeped, Pecked e Sniffed in maiuscolo, quasi l’autore temesse che la sua cultura non venisse notata.)
Conclusioni
Ammetto di irritarmi sempre un po’ quando la narrativa di genere viene trattata in modo “letterario” dall’alto, con l’intenzione — fin troppo palese — di nobilitarla. Prima sarebbe bene imparare i crismi della narrazione del genere che si intende nobilitare e poi, in un secondo momento, eventualmente, lanciarsi nell’impresa (destinata comunque a fallire in partenza, se è questo l’unico scopo) di “restituire dignità” a un genere che non ha affatto bisogno che nulla gli venga restituito — tantomeno la dignità.
Ho trovato Nod pretenzioso e narrativamente fallimentare. Probabilmente, con lo stesso — eccezionale — materiale narrativo a disposizione, un altro autore magari un po’ meno supponente di Adrian Barnes sarebbe riuscito a ricavarne un romanzo indimenticabile.
Putroppo non lo sapremo mai.
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