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L’ha sognata ancora. Ancora una volta il silenzio della sua notte è stato spezzato da lei e dall’impronta vaga del suo odore.
Si alza a sedere sul letto, cogliendo un istante prima di dimenticarsene l’ultima, vaga impressione del languore che gli stringe lo stomaco dopo ogni sogno.
Sempre uguale.
Ogni notte.
Si stropiccia gli occhi, ascoltando il rumore incessante e monotono della pioggia che batte sui vetri della stanza. Di tanto in tanto, il bagliore rapido dei lampi colora la penombra di azzurro, imprimendogli nella retina le sagome dei mobili da poco prezzo.
Si alza, sospinto da una frenesia che non riesce a identificare. Sa che non potrebbe restare sdraiato un solo istante di più, non con la pelle che ancora vibra al ricordo offuscato della pioggia bollente che gli sprizza addosso come una cascata. In cerca di conforto, appoggia la fronte febbricitante al vetro della finestra e sbircia la strada: nuvole di pioggia tracciano i confini di luce dei lampioni, barbagliando come minuscoli diamanti.
Freme. La sua pelle brucia, tormentata dal desiderio di avere la pioggia addosso a inzuppargli i vestiti, di annusare l’odore pungente e feroce dell’asfalto bagnato.
Non può resistergli. Non vuole. Si veste in fretta e esce di casa. Corre fuori dall’androne e tuffa il viso verso il cielo, chiudendo gli occhi e lasciando che la pioggia lo bagni. Si lecca le labbra con la lingua, ma quello che gli resta nel palato è soltanto il sapore ferroso dell’acqua imbastardita dallo smog. Dietro le palpebre serrate, l’immagine di lei che gli tende la mano lo tormenta, sbiadita come una vecchia diapositiva, invitandolo a seguirla.
Si incammina per la via deserta, calpestando di proposito ogni pozzanghera affinché l’acqua gli infradici le scarpe e gli inzuppi le calze di spugna. Le finestre delle case sono chiuse e buie. Il silenzio, sottolineato dall’onnipresente scroscio della pioggia, è rotto soltanto dalle rare automobili che passano tra due ali di acqua nebulizzata.
Accelera il passo. Nel cuore impazzito ha ancora il sussulto che il contatto con la mano della donna gli scarica nei nervi ogni volta, svegliandolo di soprassalto. Eppure conosce ciò che verrebbe dopo, lo conosce alla perfezione anche se non è mai riuscito a sognarlo. E il calore di quel ricordo che non è un ricordo non lo abbandona mai, lo accompagna per ore e ore dopo il risveglio come se quel tocco mancato gli lasciasse ugualmente addosso un profumo dolciastro e inebriante, un sentore stordente che gli si trattiene nell’aria dell’anima finchè non riesce a dormire di nuovo.
Per sognarlo ancora.
La pioggia aumenta di intensità. Il cielo basso rumoreggia di tuoni distanti che rotolano dietro a se stessi in un rombo cupo e senza fine. L’acqua gli si è infilata nel bavero dell’impermeabile e ora gli sgocciola lungo la schiena, sollevandogli la pelle in un brivido infinito che sembra rinnovarsi e inseguirsi con lo stesso ritmo impreciso dei tuoni.
Più oltre, la pioggia si tinge di rosso e di blu. Neon. L’insegna di un negozio di liquori.
Entra. Il locale è deserto. L’uomo alla cassa gli rivolge un’occhiata distratta e indifferente.
Incerto, si aggira tra le scansie, occhieggiando le etichette delle bottiglie disposte ordinatamente sugli scaffali come piccoli soldatini trasparenti. La sua gola si contrae: il fuoco ambrato del whisky è forse l’unica cosa che può cancellargli dal palato il sapore di mandorla bollente che lo tormenta ogni notte. Prende una bottiglia di J&B.
Si avvicina alla cassa e depone la bottiglia sul banco. L’uomo batte l’importo sui tasti senza nemmeno sollevare lo sguardo dai quattro pollici del minuscolo televisore in bianco e nero. “Diciassette”, dice.
Lui gli dà un biglietto da venti e, mentre aspetta il resto, un refolo di vento gli urta le spalle: la porta del negozio si è appena aperta dietro di lui. Si volta, e il respiro gli si strozza in gola: quei capelli neri lunghi fino a metà schiena, quel profilo così fine e deciso, il naso aquilino costellato di efelidi…
La donna lo guarda, richiamata dal suo stupore.
“Io.” Non riesce a dire altro. Per un istante eterno si sente sul punto di soffocare, poi le parole gli escono d’un fiato, accavallandosi l’una sull’altra quasi appartenessero a un’altra persona, a un altro sogno. “Tutte le notti”, dice. “Ti vedo tutte le notti e…”
La donna gli sorride come se lui le avesse appena detto la cosa più naturale del mondo. “Lo so bene”, dice.
È come paralizzato. I suoi occhi si adagiano nella contemplazione del corpo sottile della donna e quella vista sembra cancellare tutto il resto. Le gambe gli cedono e cade in ginocchio, aggrappandosi con le mani al linoleum ricoperto di segatura. “Ti sogno sempre”, trova il coraggio di dire, ascoltandosi parlare come da una distanza infinita.
La donna lo guarda. Vista dal pavimento è alta, immensa. Una dozzina di farfalle notturne le volteggia intorno ai capelli; altre sono posate sulla stoffa umida del suo cappotto e, battendo impercettibilmente le ali, suggono le minuscole gocce di pioggia rimaste intrappolate nel panno. Lei fa un passo avanti e, deliberatamente, gli schiaccia una mano sotto la suola di una scarpa. Lo guarda. I suoi occhi, lucidi di lacrime inespresse, si tuffano dentro di lui e frugano, scavano, sondano, sollevano il fango della sua anima per liberare l’essenza del desiderio che non ha ancora saputo definire.
“Ti prego”, la supplica. Poi le offre la mano libera. Con un sorriso, la donna vi posa l’altra scarpa e gli preme le dita sul pavimento. Le falene continuano il loro volo irregolare intorno alla testa di lei, sbattendo contro la fronte e posandosi sui capelli umidi.
“Ti prego”, bisbiglia lui.
La donna solleva il braccio e gli tende una mano sottile e accogliente. Le dita affusolate si dischiudono come petali e restano lì, in attesa. Lui geme, lotta per liberare le mani dalla morsa pungente dei tacchi e finalmente lei glielo permette.
Le loro mani si sfiorano, e il mondo svanisce.
Perde i confini del proprio corpo. Cerca la mano di lei nel nulla che lo circonda, ma non riesce più a trovarla. Poi una gabbia circolare si disegna dalla tenebra e lui assapora il dolore di riacquistare le membra. È disteso al centro della gabbia, nudo: la segatura gli solletica la pelle della schiena e delle natiche. Una scarpa, la stessa che gli ha inchiodato la mano, gli si posa sulla fronte e lui cerca di afferrarla, ma cinghie di cuoio gli legano i polsi. Allora tende i muscoli del collo e protende la lingua, riconoscendo nel sapore screpolato della suola il preludio alla fine del sogno che fino a quel momento gli è sempre stata negata.
Ora la donna è sopra di lui. Si accovaccia e muove le mani sulla sua pelle, ricamando gemiti sconosciuti in luoghi dimenticati. Lo avvolge in un abbraccio soffocante, lasciando che lui respiri il suo profumo e ascolti il cuore che le batte sotto la pelle dell’inguine.
“Ti prego, questa volta non svegliarmi…”
“Non stai dormendo”, dice la donna, alzandosi e sciogliendo l’abbraccio. Piroettando sopra di lui, si libera della veste di luce che indossa e allarga le gambe, mostrandogli la bocca tumida del sesso. Le labbra tra le gambe della donna sorridono, avvicinandosi al suo volto. Lui vorrebbe sfiorarle, ma si scopre grato ai lacci di cuoio che lo immobilizzano: le labbra bisbigliano, recitando versi in una lingua sconosciuta la cui musicalità appena audibile lo atterrisce in un presagio del freddo che lo attende.
“Nella purezza non c’è calore”, gli dice la donna prima di sederglisi addosso. Il suo sguardo è di fuoco, un bagliore gelido che gli divora i sensi.
La luna sorge sulla gabbia e la marea monta tra i loro corpi. Le labbra salmodianti del sesso di lei si chiudono finalmente sulla sua erezione e il gelo lo avvolge, costringendolo a urlare. Ragnatele di ghiaccio si diffondono nelle sue membra, risvegliando sensi sopiti da sempre. La donna dà inizio alla sua danza infinita di fremiti e sussulti.
Lui grida e graffia il terreno, spinto al terrore estremo dal piacere incontrollabile che sente risalirgli nel midollo spinale. L’altra bocca di lei si stringe gelida sul suo pene, parlottando e ridacchiando… e poi comincia a cantare e a gridare contro di lui, dentro di lui.
“Non aver paura”, gli sussurra la donna all’orecchio. Poi si stacca, lasciandolo tremante sul pavimento della gabbia a godere il supplizio del punto esclamativo insoddisfatto che gli si erge al centro del corpo.
“Ti prego”, la implora.
E lei lo accontenta. Si mette a cavalcioni sul suo viso, puntandogli le ginocchia sulle spalle. Lui geme. Le altre labbra gli sorridono. Non parlano più, ora. Si contraggono per un istante eterno e poi gli sprizzano addosso una cascata bollente e infinita che gli cade nello sguardo e lo acceca e gli cola sulle guance e nelle labbra e lui grida, grida, grida perchè quello è il sapore del sogno, quello è l’oro metallico che gli resta nel palato fino all’alba, quello è il calore bollente e torbido che fa da contraltare al ghiaccio bianco della purezza.
La paura lo risucchia e lui precipita verso l’alto, vorticando intorno a un sibilo di ghiaccio e di fuoco che gli fischia nelle orecchie sempre più rapido e confuso… e che, finalmente, implode nel semplice, banale contatto di una mano in un’altra.
“Oh, dio”, dice lui incredulo.
La donna gli lascia la mano e esce dal negozio di liquori, portando con sé la sua orbita di falene.
Lui rimane inebetito a guardare la porta che si chiude dietro di lei. Cerca nell’aria qualcosa, fruga con lo sguardo il punto in cui fino a un istante prima c’erano quegli occhi senza fine, il punto in cui quella mano dalle dita sottili come steli di fiori si è aperta nell’invito all’oblio…
“Vai via, lurido pervertito.”
Si volta di scatto, sorpreso. L’uomo dietro la cassa lo sta guardando con aria disgustata. Si rende conto di essere sdraiato per terra. Intorno a lui la segatura è scurita dall’odore acre e inconfondibile dei suoi desideri nascosti.
“Vattene o chiamo la polizia.”
Si aggrappa a uno scaffale e si tira faticosamente in piedi. Esce barcollando dal negozio. La pioggia batte il suo ritmo incessante, calmo, infinito: sembra impossibile che un giorno possa smettere di cadere. Lui la guarda nella luce dei lampioni e ricorda l’altra pioggia, quella che gli sta ancora nei capelli e sulle labbra, e si rende conto con sgomento che tra non molto l’acqua la laverà via, diluendola e portandola con sé nell’oscurità misteriosa dei tombini. D’un tratto, l’idea gli sembra insopportabile: corre, corre a perdifiato per arrivare a casa prima che la pioggia gli cancelli di dosso l’odore di quella realtà che già comincia a sfuggirgli.
Non è abbastanza rapido: il languore del sogno lo riconquista a metà di un passo, colmandolo di una tristezza infinita.
Ripercorre la strada come un automa. Le gocce gli cadono negli occhi, gli si infilano nei vestiti, gli attaccano i capelli alla fronte. Avvolgono la luce dell’androne in un pulviscolo di gemme. Scintillano, ma nessuna di esse ha il colore dell’oro.
Entra in casa e si getta sul letto, muovendo la lingua sul palato per permettere alle ultime vestigia di quel sapore arcano di scavargli un vuoto nel cuore. Il rombo sordo e continuo dei tuoni lo accompagna nel sonno.
Fuori continua a piovere.
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