Libri tradotti — “The Portable Veblen”

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The Portable Veblen
di Elizabeth McKenzie, a detta di molti — anzi moltissimi — è stato uno dei migliori romanzi del 2016

…e in italiano l’ho tradotto io. Wow.

E questo grazie alla lungimiranza di Patricia Chendi, editor di Marsilio/Sonzogno (la intervisteremo per questo sito, prima o poi), che ne ha acquistato i diritti prima che i summenzionati “molti, anzi moltissimi” si accorgessero di quanto era straordinario — e ha affidato la traduzione a me — altro segno, questo, della sua competenza.

Ehm. [Va bene, dai, qui sopra inseriteci uno smile.]

Okay, ma chi sono questi molti, anzi moltissimi a cui mi riferisco?

Well, l’elenco dei premi e dei riconoscimenti attribuiti a The Portable Veblen è decisamente lungo. Ecco chi l’ha nominato tra i “Best Books of 2016”: il San Francisco Chronicle, The Guardian, il St. Louis Post-Dispatch, Kirkus, Elle, BookPage… e ce ne sono molti altri, ma ve li risparmio.

Inoltre, The Portable Veblen è stato finalista ai National Book Awards, uno dei più importanti premi letterari statunitensi — se non il più importante.

L’autrice

Elizabeth McKenzie è una ragazza sorridente e assai disponibile. Nonostante la giovane età (non ho mai osato chiedergliela, ma dalle foto si evince che è assai — molto — più giovane di me e, essendo io giovane dentro, per traslazione…) ha già al suo attivo altri due libri di successo, Stop That Girl e MacGregor Tells the World, e pubblica per il New Yorker e The Atlantic Monthly.

Tra l’altro, giusto per non perdere l’abitudine, anche MacGregor Tells the World è stato eletto “miglior libro dell’anno” dal Chicago Tribune, dal San Francisco Chronicle e dal Library Journal.

Insomma, una voce già importante negli USA e, se in Italia non ci siamo già ormai fritti il cervello oltre ogni possibile tentativo di rianimazione, EMK diventerà famosa e apprezzata anche da noi.

McKenzie ha anche un suo sito web, stopthatgirl.com, dove potete trovare più o meno tutto ciò che volete sapere di lei — tranne la sua età, maledizione.

Il libro

The Portable Veblen è un romanzo unico, molto divertente e — proprio come quelli che preferisco — è semplice da leggere ma, non appena si guarda “sotto il cofano”, si scopre un motore narrativo estremamente complesso e sfaccettato.

(State per capire, finalmente, il perché di tutti questi scoiattoli in giro.)

La storia si arrotola intorno al personaggio principale, Veblen Amundsen-Hovda, una ragazza sensibile, tenera e particolare che deve il suo improbabile nome di battesimo all’ammirazione che i suoi genitori biologici nutrivano per Thorstein Veblen, l’oscuro — e incompreso — sociologo e economista americano di origine norvegese vissuto tra il 1857 e il 1929 (per ulteriori info sul buon vecchio Thorstein, vi rimando alla pagina Wikipedia a lui dedicata, altrimenti facciamo notte). Veblen vive da sola in una minuscola casetta al limitare di Palo Alto, in California, e — tra le sue tante peculiarità — ha un rapporto molto particolare con gli scoiattoli, animali che adora e con cui, spesso, si intrattiene in lunghe conversazioni.

La dolcissima Veblen si ama reciprocamente con Paul, giovane chirurgo/ricercatore che ha ideato, e vuole portare a realizzazione, uno strumento che consentirà ai medici dell’esercito di operare craniotomie in situazioni di emergenza durante i combattimenti.

I due decidono di sposarsi, e questa loro decisione innesca la divertentissima deflagrazione che si ingrandirà come un fungo atomico per tutto il romanzo. Mentre Paul viene irretito da Cloris Huthmacher, ereditiera dell’impero farmaceutico Huthmacher, per sviluppare anzitempo il suo strumento per la perforazione del cranio, entrano in gioco le due rispettive famiglie, ed è qui che il romanzo spicca davvero il volo.

I genitori di Veblen sono personaggi straordinari. La madre di lei, in special modo, viene tratteggiata da McKenzie con una maestria — che speriamo non sia derivata da esperienza diretta — assoluta, riuscendo immediatamente a trasporre sulle pagine i crismi di uno dei peggiori comportamenti passivo-aggressivi della letteratura recente. Affiancata da Linus, marito-servo — eunuco, lo definiranno i consuoceri — non tarderà a entrare in aperto conflitto con la famiglia di Paul, composta da due genitori ex-hippy (oddio, non tanto ex, a dire il vero) e da un altro figlio nato con paresi cerebrale e nei cui confronti Paul nutre un’avversione che spesso dà l’impressione di sfociare nell’odio.

Se all’equazione aggiungiamo il vero padre di Veblen, che è attualmente rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché schizofrenico paranoide (ma adorabile), e la presenza costante degli scoiattoli con cui Veblen si ostina a voler parlare, ecco la ricetta per un romanzo esplosivo.

Esplosivo in tutti i sensi: in mani meno capaci di quelle di Elizabeth McKenzie, il libro poteva facilmente trasformarsi in un guazzabuglio senza senso, cosa che invece non accade affatto. Anzi, è proprio sull’irregolarità e la “normale follia” dei personaggi che McKenzie riesce a costruire una storia che, in certi passaggi, strappa risate e, in altri, induce pensieri e riflessioni.

Un frammento in particolare, quando Veblen parte per andare a trovare suo padre accompagnata da uno scoiattolo e finisce in un motel in compagnia del roditore e, così facendo, innesca una telefonata-fantasma in cui Paul si convince che lei sia a letto con un altro uomo, mi ha ricordato, per la semplice genialità dell’effetto comico basato sull’equivoco, l’indimenticabile passaggio de La casa del sonno di Jonathan Coe in cui le note a piè di pagina vengono alterate (spero ve lo ricordiate).

Insomma, tra un colpo di scena e un’introspezione, il romanzo procede sul suo binario zigzagante e — solo apparentemente — raffazzonato, per giungere inevitabilmente alla conclusione.

Spoiler Alert! Non cliccate se non volete scoprire il finale

Dopo infinite peripezie, Veblen e Paul riescono a sposarsi, non prima che Paul sia stato investito da Cloris Huthmacher mentre tentava di opporsi alla commercializzazione frettolosa del suo accrocchio craniotomico e non prima che Veblen abbia meditato a lungo, coadiuvata dalla madre passivo-aggressiva — e ovviamente da una lunga, illuminante conversazione con il suo scoiattolo di riferimento — se sposarsi o se, invece, dedicarsi a una vita di studio della cultura norvegese e di Thorstein Veblen in particolare.

Il lieto fine non finisce qui, però: Cloris soffrirà la pena del contrappasso, e Veblen e Paul si trasferiranno in Norvegia, cambiando completamente vita.

I piccoli lampi di genio incastonati in tutto il romanzo sono così tanti che è un dispiacere non menzionarne alcuno. Ma non voglio sottrarvi il piacere di leggerli per la prima volta e di stupirvene come è capitato a me.

Resto però della mia idea: The Portable Veblen è uno dei migliori romanzi che io abbia mai avuto la fortuna di tradurre.

La traduzione

La traduzione di The Portable Veblen è stata anche una delle più difficili che io abbia mai affrontato. I continui cambi di registro — lo slang farmaceutico e gli acronimi astrusi dell’Esercito nei capitoli in cui Paul inizia la sperimentazione del suo strumento, le digressioni colte di Veblen, le tirate ipocondriache della madre di lei, i passaggi narrati dal punto di vista degli scoiattoli — hanno messo a dura prova sia la mia abilità che, lo ammetto, la mia pazienza.

Eppure, a testimonianza di quanto il romanzo mi sia piaciuto, non ho sperimentato ciò che capita praticamente sempre — e i miei colleghi traduttori sanno benissimo a cosa mi riferisco — ovvero di arrivare a odiare con tutto il cuore e tutto l’animo l’autore, specialmente quando il romanzo volge al termine — ma, in realtà, per noi sembra non finire mai.

Li detestiamo. Inutile nasconderci. Noi traduttori finiamo con l’odiare gli autori che traduciamo — almeno mentre li traduciamo, salvo poi tornare ad amarli (ciò accade mediamente un paio di settimane dopo aver consegnato il lavoro).

Ebbene, con Elizabeth McKenzie non mi è capitato.

Oltretutto, la stessa autrice — facendo parlare Veblen, che è una traduttrice, nel senso che traduce gratuitamente dal norvegese articoli e saggi su (e di) Thorstein Veblen per il Progetto Diaspora dell’Università di Oslo — le fa dire quanto segue…

…e come può un traduttore aversene a male, riconoscendosi così perfettamente nel Veblen-pensiero?

When you entered the cavern of another language, you could leave certain people behind, for they had no interest in following you in. You could, by way of translation, emerge from the cavern and share your adventures with them. You didn’t have to be an intellectual in a black beret smoking clove cigarettes to be a translator, not at all. You could become one in your blue flannel pajamas, your face smeared with Clearsil.Veblen Amundsen-Hovda

Passaggio che io ho tradotto così:

Quando si entrava nella caverna di una lingua straniera, si potevano lasciare indietro certe persone, perché loro non ti avrebbero mai seguito. Era possibile, per mezzo della traduzione, emergere dalla caverna e condividere le proprie avventure con le persone che avevi lasciato indietro. Non dovevi essere per forza un’intellettuale in berretto nero che fumava sigarette senza filtro, per essere una traduttrice, no affatto. Potevi diventare traduttrice anche nel tuo pigiama azzurro di flanella, con la faccia spalmata di Clearasil.

Altri — molti — passaggi sono stati assai impegnativi. A un certo punto, per esempio, mi sono accorto — soltanto dopo un paio di pagine — che, senza alcun avviso evidente, più o meno ogni paragrafo di quella sezione iniziava con una citazione diretta dei sonetti di William Shakespeare. E come non ricordare alcuni incubi farmacologico-militari dei capitoli dedicati a Paul?

O questo passaggio in cui la madre di Veblen comunica a Paul la lista dei suoi sintomi da ipocondriaca?

Veblen’s mother dished out steaming mounds of her creation. “I’ve received atrociously condescending treatment over my recent migraine business,” she said. “It’s a wonder cads like these stay in practice.”

“What seems to be the nature of the condition?” Paul asked, and Veblen’s dread distributed itself through her limbs.

“Well, starting four years ago, just after my yearly flu shot, I experienced an array of symptoms ascribed to migraine equivalence or transient ischemia. Obviously, and as you know, many known foods and chemicals precipitate the condition.”

“Absolutely,” Paul said. “Sodium benzoate, cyclamates, chocolate, corn—”

“Peas, pork, lamb, citrus, onion, wheat, pears, the list goes on. Symptoms of mine have included imagery, hypothermia, palisades, aphasia, a feeling of rotating. Further, I’ve had facial paralysis, paralysis of upper limbs, and narcolepsy. I don’t believe this fits in the typical migraine profile.”

“Well, I wouldn’t call it typical,” Paul said, hesitantly.

“Now I have learned in time that a middle aged woman with unusual symptoms can easily be labeled a crackpot, a psychosomatic case, a malingerer. Further, my general physician recently told me I’m too observant. How can I agree with that? If not me, who then?”

Ecco la mia traduzione italiana:

La madre di Veblen impiattò porzioni della sua creazione culinaria e le distribuì. “Sono stata trattata in modo atrocemente condiscendente con il mio problema recente di emicrania”, disse. “C’è da stupirsi che simili mascalzoni continuino a esercitare.”

“Quale sarebbe la natura del disturbo?” domandò Paul, e l’orrore di Veblen si diffuse in tutte le sue membra.

“Be’, a cominciare da qualche anno fa, appena dopo il mio vaccino anti-influenzale che faccio ogni anno, ho sperimentato una serie di sintomi che si possono ascrivere a un’emicrania o a un’ischemia transitoria. Naturalmente, come tu saprai benissimo, molti cibi e sostanze chimiche conosciute peggiorano la condizione.”

“Assolutamente”, disse Paul. “Il sodio benzoato, i ciclammati, il cioccolato, il mais—”

“Piselli, carne di maiale, carne di agnello, cipolle, granturco, pere… la lista è lunghissima. I miei sintomi comprendevano illusioni, ipotermia, scalette, afasia, senso di rotazione. Inoltre, ho sofferto di paralisi facciale, paralisi degli arti superiori e narcolessia. Non credo che rientrino nel tipico profilo dell’emicrania.”

“Be’, non lo definirei certo tipico”, disse Paul, esitante.

“Ora, con il tempo ho scoperto che una donna di mezza età con sintomi non comuni può essere etichettata facilmente come pazza, o come caso psicosomatico, o come ipocondriaca. Inoltre, il mio medico generico mi ha detto non molto tempo fa che sono troppo osservatrice. Come posso essere d’accordo con una tale affermazione? Se non io, chi allora?”

Insomma, come potete facilmente intuire, è stato divertente ma impegnativo.

Conclusioni

The Portable Veblen è un romanzo da non perdere. Al momento non conosco la data della pubblicazione italiana, ma sono pronto a scommettere che sarà nelle nostre librerie nella prima metà del 2017.

Nota conclusiva: Come avevo già anticipato nella pagina About This Site, questo è il primo post in cui affronto, anche nei dettagli, gli aspetti della traduzione.

Mi piacerebbe sapere cosa pensate di questo approccio, e se suscita il vostro interesse.

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2 Comments

  1. Mario Mattia said:

    Molto interessante. Apri un piccolo squarcio sul mestiere di traduttore e mostri le piccole/grandi difficoltà che si incontrano in questa attività. Bellissima l’idea di mettere a confronto il testo originale e la tua traduzione. Si nota come, in questo lavoro, intervenga anche l’essere scrittore del traduttore.

    2 Gennaio 2017
    Reply
    • Grazie, Mario. Lo scopo era proprio questo — e lo sarà anche negli altri articoli che tratteranno l’argomento. Sono da sempre convinto che, almeno in Italia, la figura del traduttore sia enormemente sottovalutata.

      3 Gennaio 2017
      Reply

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